baccala italiano

BACCALÀ E LINGUA ITALIANA

Un modo di dire dal sapore tutto suo

Ormai lo sappiamo: con la sua sapidità e il sapore delicato, il baccalà garantisce a ogni morso una grande esperienza sensoriale. Ma non parliamo solo di gusto, parliamo anche – e soprattutto – di un fattore culturale che col tempo ha cambiato non solo il nostro modo di stare a tavola ma anche il nostro modo di…parlare!

Pensiamo alla nostra lingua, ai modi di dire, ai nostri dialetti. Il baccalà – e in parte anche suo “cugino”, lo stoccafisso. Se volete conoscere la differenza potete cliccare qui – ha assunto una semantica specifica nell’italiano parlato, formulando tutta una serie di detti, motti e “freddure” che hanno contribuito ad arricchire e a dare un colore tutto nuovo (e più bello) alla nostra lingua.

Ma come ci è finita questa parola nel ricco vocabolario italiano? E come ha fatto a insinuarsi in modi di dire e dialetti con quella disinvoltura tipica di un ingrediente che non chiede mai troppo spazio ma sa benissimo come farsi ricordare?

L’etimo – un tantino incerto – del baccalà

Partiamo dalle origini: “baccalà”. Questa parola sembra battere sulla lingua con un ritmo tutto suo, una musicalità data forse dall’accento, o dalla presenza dominante di un’unica vocale.

Etimologicamente si ritiene che derivi dalla parola di origine fiamminga “bakkel-jau”, cioè “pesce salato”, che a sua volta è una trasposizione di “kabeljauw”, ovvero “duro come una corda”. Questa locuzione è stata poi utilizzata in molte lingue neolatine, che ne hanno fatto una parola propria – ne è un esempio il portoghese, dove troviamo il bacalhao.

Ci sono anche altre teorie che, invece, risalgono al latino medioevale dove troviamo bacalāreus termine che suona un tantino nobiliare dato che i baccalauri erano i giovani di buona famiglia in procinto di essere armati e nominati cavalieri. Ma cosa vogliono le armerie medievali dal merluzzo? I cavalieri non c’entrano molto in realtà. Ebbene, bisogna sapere che i baccalari erano le grandi mensole di legno dello scafo delle imbarcazioni su cui erano fissati gli scalmi per i remi. La parola latina originaria è baculus che significa bastone e i baccalari rimandano per immagine alle strutture dove il merluzzo veniva appeso per essiccare.

Certo, sono solo ipotesi, e alcune non molto lineari. Come a dire che questo pesce, probabilmente, ha fatto più di un giro sulle navi dei mercanti e degli esploratori prima di attraccare definitivamente nella lingua italiana. E immancabilmente gli studiosi delle lingue hanno ancora dei passaggi da ricostruire.

Fare la figura del baccalà

La parola “baccalà”, tuttavia, non si limita a designare un tipo di pesce salato. Anzi, si è trasformata, con un pizzico di ironia, in una fonte inesauribile di espressioni colorite nei vari dialetti italiani.

Fare la figura del baccalà (ma anche dello stoccafisso), per esempio, non è certo un complimento. Immaginiamoci lì, impacciati come un pezzo di merluzzo immerso nel sale (o steso ed esposto ai venti a essiccare, se parliamo di stoccafisso). Immaginiamoci lì, insomma, a non saper che fare se non attendere che vento e sale agiscano e nel frattempo star fermi e immobili (e anche un po’ in imbarazzo).

Ecco, messa così ci è molto più chiaro perché nello specifico il baccalà si è trasformato nel tempo in un modo di dire così diffuso per indicare chi, metaforicamente sta lì tutto rigido ad aspettare in modo goffo. Certo, è solo un modo di dire che fa leva su un’espressione non tanto lusinghiera, per descrivere una persona fuori posto, imbarazzata che non riesce proprio a rilassarsi e quindi sta ferma ad attendere che qualcosa accada.

Noi, ovviamente, da amanti del mare guardiamo al baccalà e allo stoccafisso ma questo tipo di metafora non è solo del mondo ittico. Pensiamo al modo di dire come non fare il salame: vuol dire più o meno la stessa cosa di non fare il baccalà ovvero “non fare lo stupido” oppure “non startene lì impalato”. Dunque, perché due alimenti diversi con un significato identico? In realtà fra questi due alimenti un legame, nascosto, c’è. Ma per trovarlo dobbiamo andare indietro nel tempo e arrivare al XVIII secolo. Fino ad allora, infatti, quando si parlava di salamen si intendevano tutti gli alimenti conservati con il sale, in particolare le carni e il pesce. Non a caso il baccalà veniva venduto nelle botteghe dei lardaroli. All’epoca, quindi, il salame non era tanto un alimento quanto più un metodo di lavoro del prodotto e di conservazione.

Il buon nome del baccalà

Ma non tutto è una presa in giro per il nostro caro baccalà. In alcune regioni, “essere un baccalà” è un complimento che delinea forza e capacità di resistere nonostante le avversità. Proprio come fa il baccalà che, nonostante il processo di salatura, mantiene il suo sapore e le sue proprietà nutritive, se solo si dissala e si lascia andare. È una metafora della tenacia, del mantenere la propria essenza anche quando le circostanze cercano di trasformarti in qualcosa di irriconoscibile.

A Napoli, poi, “baccalà” è quasi un termine affettuoso, usato in modo ironico e affezionato per indicare una persona un po’ tonta, ma comunque simpatica. Sempre in Campania, il nostro pesce viene usato anche per altri modi dire popolari. Tipo; so’ juto stocco e so’ turnato baccalà, ovvero sono andato da stoccafisso e sono tornato da baccalà. Questa massima può avere addirittura due interpretazioni:

1- se consideriamo che baccalà e stoccafisso sono il risultato di due diverse lavorazioni dello stesso pesce, il merluzzo, sotto sale il primo ed essiccato il secondo, una prima interpretazione potrebbe essere il riferimento a qualcuno che si impegna per avviare un progetto ma dopo un po’ si ritrova al punto di partenza, senza nulla di fatto;

2- la seconda interpretazione, abbastanza simile ma forse con un risultato più “sfortunato”, si riferisce a qualcuno che parte fresco (con la buona polpa del baccalà) e non solo non raggiunge il proprio obiettivo ma perde ciò che aveva (si ritrova secco e duro).

Prima di chiudere questo breve excursus sui modi di dire del baccalà, è doverosa una piccola osservazione. Spesso, nei nostri dialetti regionali, merluzzo, baccalà e stoccafisso vengono scambiati l’uno con l’altro. I genovesi chiamano stochefiscio il baccalà, mentre a Venezia si fa il contrario – basti pensare al baccalà mantecato, ricetta tipica veneziana che richiede un ingrediente fondamentale: lo stoccafisso. In Lombardia si parla più genericamente di merluzzo, senza stare a fare troppe distinzioni. Nel sud, invece, vengono rispettate le parole, pur riadattandole. Per esempio, a Messina abbiamo u piscistoccu e a Napoli u stocc. Questo, ovviamente, ha in parte inciso anche sul rapporto di questi prodotti con le cucine regionali, ma di questo abbiamo già parlato qui a proposito del rapporto fra Italia e Baccalà.

Quindi possiamo proprio dirlo: il baccalà, oltre a essere un ingrediente versatile, è diventato un vero e proprio simbolo culturale, inserendosi nel linguaggio quotidiano con una varietà di significati che vanno ben oltre il contesto culinario. Da termine che indica un semplice pesce lavorato a metafora di situazioni umane universali, il baccalà dimostra come il cibo possa trasformarsi in un potente strumento narrativo, capace di raccontare storie di vita e di cultura, cogliendo – perché no – un po’ di sana ironia. Che, dobbiamo dirlo, non fa mai male.

Scopri le altre news