road-to-social-change-unifrigo

Road to Social Change – Unifrigo Gadus incontra gli studenti a Napoli

Andrea Eminente, Amministratore Delegato di Unifrigo Gadus insieme a suo padre Gianluca Eminente, Presidente dell’azienda.

Nella foto sopra, Andrea Eminente, Amministratore Delegato di Unifrigo Gadus insieme a suo padre Gianluca Eminente, Presidente dell’azienda.

Giovedì 11 dicembre l’AD di Unifrigo Gadus, Andrea Eminente, è stato invitato a partecipare al programma Road to Social Change, iniziativa promossa dalla Banking Academy Unicredit e Università degli studi Suor Orsola Benincasa per gli studenti che vogliono specializzarsi come Social Change Manager.

Nel corso del dibattito sono state molte le domande rivolte a Eminente, dalla capacità di Unifrigo Gadus di operare il giusto passaggio lungo i suoi quasi 150 anni di storia e 6 generazioni fino alla sostenibilità.

Questo è un breve riassunto del confronto di Andrea Eminente con gli studenti, per rendere utile per tutti gli spunti emersi.

 

Siete giunti a quasi 150 anni di storia, senza scontri ma anzi con un sereno passaggio generazionale. Come avete fatto?

A dire il vero, non è proprio così: lo scontro c’è stato, anzi, deve esserci. Un’azienda non può evolvere se non arriva qualcuno che porta idee nuove e se chi c’era prima non lascia fare.

Io a volte rileggo con tenerezza le mail che inviavo quando sono entrato in azienda quattordici anni fa. Sono mail che io non invierei mai oggi ma non le rinnego perché sono parte di un percorso di crescita. Oggi, però, apprezzo soprattutto che nessuno mi abbia detto di non inviarle impedendomi così di fare degli errori fondamentali per la mia formazione professionale.

È questo il segreto per un corretto passaggio generazionale, oppure c’è altro?

C’è sicuramente molto altro ma in linea di principio tutti gli altri segreti, se così vogliamo chiamarli, possono essere riassunti in un concetto strettamente legato alla sostenibilità.

Lo dico perché la prima volta che ne ho sentito parlare, tempo fa, ho pensato che fosse una moda – quindi qualcosa di passeggero – e soprattutto una moda legata esclusivamente alla questione ambientale. Poi, un po’ per curiosità un po’ per studio mi ci sono avvicinato e ho approfondito.

Ho capito solo dopo che la sostenibilità si basa su tre pilastri, ESG: ambiente, persone e governance. E pensandoci bene, studiando, mi sono domandato: ambiente, persone e buon andamento economico sono sostanzialmente gli stessi pilastri su cui si basa un’impresa sana. È da sempre così.

Dunque, forse, è la parola che è di moda ma la sostenibilità, di per sé, si è sempre fatta quando si voleva far bene impresa. Sostenibilità è solo il termine che noi oggi usiamo per portare avanti delle best practice che si usano da tempo.

In questi quasi 150 anni di Unifrigo Gadus, col senno di poi, direi che ci siamo sempre richiamati ai principi di sostenibilità, siamo sempre stati intrinsecamente sostenibili perché abbiamo sempre posto la giusta attenzione su ambiente, persone e buon andamento economico. Solo che oggi la chiamiamo sostenibilità mentre prima era più semplicemente “lavoro ben fatto”.

Se guardiamo ai dati nazionali, solo il 30% delle imprese sopravvive al primo passaggio generazionale. Il 13% sopravvive al secondo passaggio. Come mai secondo lei?

Non posso rispondere per tutti, posso al più riportare il mio esempio.

Nel caso di Unifrigo Gadus non c’è mai stato un passaggio vero e proprio ma al più un affiancamento generazionale. Il passaggio è avvenuto in modo molto naturale e nei tempi giusti, abbastanza presto. Non è stato pianificato: un po’ alla volta mio padre ha iniziato a passarmi il suo lavoro e alla fine ho assunto il ruolo che ho oggi.

Da una parte l’imprenditore, a mio avviso e per la mia esperienza, deve essere in grado di lasciare gradualmente il controllo. Non è una cosa scontata, lo capisco, ma bisogna farlo per far sopravvivere l’azienda.

Dall’altra parte, però, chi entra in azienda ha una naturale attitudine alla contestazione: anch’io, quando sono entrato in Unifrigo Gadus ho iniziato a dire bisogna cambiare questo, questo e quest’altro.

Poi però mi sono guardato meglio attorno e ho capito che non era tutto da rovesciare: in fin dei conti se c’è un passaggio generazionale è perché c’è qualcosa da passare, c’è un’azienda che è nata e ha prosperato. E quindi non tutto va buttato via, anzi. Molto spesso ciò che si trova è valido e va solo sistemato e ottimizzato.

A chi lascia dico che bisogna capire un concetto: se si continua a fare come si è sempre fatto, non si crescerà mai. A chi prende su di sé l’azienda, però, dico che certamente deve dare nuove idee ma non deve mai dimenticare che se c’è qualcosa da passare, vuol dire che ciò che è stato fatto prima ha funzionato. Quindi il talento dev’essere portare idee ed energie nuove ottimizzando i processi e mantenendo ciò che è di valore.

Parliamo di competenze: di quali ha bisogno un’azienda oggi?

L’università fa acquisire delle competenze teoriche e accademiche elevatissime – le hard skills – che poi, nella messa in pratica, devono connettersi alla singola azienda, al suo modo di fare e alla sua organizzazione interna. E quella diventa esperienza professionale.

Poi però non ci sono solo le competenze tecniche, esistono anche quelle che vengono chiamate soft skills e quelle, inutile girarci intorno, o si hanno o non si hanno.

Qui bisogna fare un salto in più – sempre per connetterci al tema della sostenibilità che, come vedete, per noi è il perno attorno al quale ruota tutto. Perché nel momento in cui parliamo di commistione di competenze tecniche e attitudini personali non premiamo solo la preparazione e il talento ma la persona in sé, al di là della provenienza, del genere o di altre caratteristiche personali. Lì si può davvero fare un salto che ripaga le aziende.

Faccio un esempio. Unifrigo Gadus è un’azienda con Certificazione di parità di genere: circa il 40% dell’organico è femminile e 1 su 2 è under 30. Questa Certificazione, in qualche modo, ci è caduta addosso perché quando, col tempo, abbiamo scelto quelle figure non l’abbiamo fatto pensando alla Certificazione oppure a motivi etici. No: semplicemente quelle persone – persone – erano le più qualificate per quei ruoli sia in termini tecnici che in termini di soft skills, di attitudini personali. Abbiamo scelto quelle persone perché avevano qualcosa che gli altri – ripeto, al di là del genere di appartenenza – non avevano. E se le competenze si possono acquisire, le attitudini personali no: le hai o non le hai, al di là del fatto che tu sia, ad esempio, un uomo o una donna. Questo è stato il ragionamento e la Certificazione è stata una conseguenza naturale.

Quello che ho appena fatto è un discorso legato al genere ma lo stesso vale, ad esempio, per la provenienza. Dato che siamo a Napoli, facciamo un ragionamento legato al rapporto Nord-Sud Italia – e relative differenze di possibilità di carriera per i talenti e di crescita per le aziende.

Su questo argomento penso di essere un osservatore privilegiato perché ho due stabilimenti, uno in Campania e l’altro in Piemonte. A mio avviso, c’è un fondo di verità quando si dice che l’imprenditore napoletano, ad esempio, deve imparare a incanalare la sua intraprendenza e creatività in una struttura a processi, un’azienda ottimizzata. Ma se questo è vero, è vero anche che su tutto il resto – rispetto per le persone, lavoro in team, inclusione – noi non siamo secondi a nessuno.

Quelli che ho appena elencato sono, del resto, i pilastri del fare bene impresa, come dicevamo all’inizio – persone, governance etc. – e quindi non possiamo non pensare che il futuro del fare impresa sia qui, al sud. Sembra un paradosso, per come siamo abituati a vedere il nostro Paese e i nostri territori, ma questo è solo perché non guardiamo il quadro d’insieme.

Quando ero all’università, a Napoli, era facile sentir dire per i corridoi “non abbiate paura di andar via e di cercare fortuna altrove”. Oggi io dico invece “non abbiate paura di rimanere, di investire le competenze acquisite all’università nelle imprese del sud per farle crescere”.

Parliamo invece nello specifico di sostenibilità. A che punto siamo oggi?

Oggi siamo di fronte a una sfida nuova: il consumatore moderno acquista in modo diverso. A differenza di alcuni anni fa, si interessa a dove è stato prodotto il bene, chi l’ha prodotto, qual è il suo impatto sull’ambiente eccetera.

Insomma, quando può, quando è messo nella condizione di farlo, il consumatore sceglie di premiare le aziende intrinsecamente sostenibili. Quindi, se guardiamo all’intera filiera, importatori e distributori come noi e consumatori stanno facendo un grande sforzo per migliorare la situazione e diminuire l’impatto.

Temo però che in questa catena ci siano degli anelli deboli come ad esempio la GDO. Talvolta mi sembra più attenta alla sostenibilità a parole e meno nei fatti.

Chiaro: il supermercato espone solo i prodotti che è certo di vendere, quindi va magari verso prodotti mainstream che però hanno dei problemi a livello di produzione o di impatto. Ognuno fa il proprio lavoro e ciò che può ma è pur vero che così le aziende che investono, che si impegnano, che vogliono fare la propria parte non vengono premiate dal mercato, anzi.

Faccio un esempio, solo per farvi capire la dinamica: nessun supermercato compra un prodotto come il nostro Cuore di Baccalà Marca Scudo perché ha una confezione in carta con un risparmio del 90% di plastica. Acquistano quel prodotto per rivenderlo al consumatore solo se quel prodotto costa quanto la confezione in plastica, non di più. E se è così, se il supermercato non premia la scelta di investimento sostenibile e non mette a scaffale quel prodotto, il consumatore come può sceglierlo?

Quindi certamente noi aziende e voi consumatori dobbiamo fare la nostra parte in termini di sostenibilità ma dobbiamo essere posti nella condizione di poter fare la scelta giusta. E questo possiamo farlo solo se gli altri anelli della catena, gli altri passaggi della filiera fanno anche loro la loro parte.

 

Però è anche vero che è difficile coniugare un servizio efficiente con impegni di sostenibilità che tendono a richiedere più passaggi e maggiori accortezze.

Certo, ma si può fare. Ovviamente però noi tendiamo a vedere solo una parte del discorso senza pensare che l’ottimizzazione della filiera è più ampia di quanto possa fare un’azienda come Unifrigo Gadus.

Faccio un esempio. La sostenibilità parte dalla scelta del prodotto: bisogna scegliere il più possibile prodotti che, come diciamo noi, siano intrinsecamente sostenibili.

Prendiamo lo stoccafisso, ovvero il merluzzo essiccato, per semplificare. Quando viene importato dalla Norvegia, viene sottoposto a lavorazione, tipicamente viene reidratato per fare il prodotto finale che va al banco.

Tramite la reidratazione, per ogni chilo che si importa, in realtà sulla tavola degli italiani – quindi prodotto che ci nutre – ne arrivano tre o quattro chili. Io importo uno e reimmetto tre o quattro direttamente sulla tavola del consumatore. Ho ammortizzato di tre o quattro volte l’impatto della lavorazione e del trasporto.

Chi lo sa che lo stoccafisso – peraltro prodotto buonissimo ed estremamente versatile e creativo – arriva a questo grado di sostenibilità? Quasi nessuno. Perché GDO e dunque consumatori si concentrano su altri prodotti più noti, facili da vendere.

Prendiamo invece un pesce mainstream come l’orata o la spigola, solitamente importate dalla Grecia, ad esempio.

Da un chilo di orata, ciò che arriva sulla tavola non è più calcolato in chili ma in grammi perché va lavorata, pulita, sfilettata eccetera. Questo non fa altro che moltiplicare l’impatto della lavorazione e del consumo.

Come mai, allora, il consumatore acquista più orata e meno stoccafisso? Semplicemente perché al supermercato trova quella e non lo stoccafisso, nella maggior parte dei casi. In quel caso, di chi è la responsabilità del consumo poco sostenibile, dell’azienda produttrice, del consumatore o del supermercato?

Eppure, nessuno si pone il problema di questo tipo di impatto. E allora il ragionamento che va fatto è di tipo diverso: non più una responsabilizzazione di tipo verticale, sulla singola azienda che si colloca su un singolo passaggio della filiera ma una responsabilità di tipo orizzontale, distribuita su più soggetti economici.

Per come è pensata oggi la filiera, ogni passaggio vuole scaricare lavoro e rischio su altre aziende per non assumersene il peso. Ma quando parliamo di sostenibilità e basso impatto ambientale o sociale, non dobbiamo guardare le singole aziende ma l’intero sistema. Altrimenti non ne usciremo mai perché non è un lavoro che la singola azienda può fare da sola sul mercato.

Scopri le altre news